Le occasioni capitano sempre nei momenti più improbabili.
Dov’eri quando i New York Knicks ti hanno chiesto di lavorare per loro?
Ero seduto sulla tazza del water! Che dire, succede sempre tutto quando meno te l’aspetti: infatti per un attimo pensavo a uno scherzo, ma invece (e per fortuna) erano seri. E da quel momento vado più spesso in bagno, sperando che porti fortuna. Ma al momento non me ne sono arrivate più di proposte cosi: vorrà dire che ne ha guadagnato il mio intestino.

Un passo indietro. Presentati alla tua maniera: nome, cognome, luogo di nascita, breve descrizione della tua vita fino al volo per gli States.
Mi chiamo Matteo Marchi, ho 36 anni, sono di Imola e vivo a New York. Da 5 anni sono fotografo sportivo, e faccio soprattutto basket: nel curriculum ho infinite esperienze cestistiche, ho fotografato dagli amatori Csi alle Olimpiadi (Londra e Rio), e ho un difetto mostruoso: non mi accontento mai di quello che ho. Agli inizi lavoravo a Imola per il fotografo del Carlino e altri mille giornali locali, e mi sembrava tutto così grande; poi sono cresciuto (da tutti i punti di vista) e mi sono accorto che invece di godermi quello che stavo vivendo, stavo già pensando al passo successivo. Nel mio caso, l’America.
Cosa rappresenta per te la pallacanestro?
Per me il basket è vita. Grazie al basket ho conosciuto praticamente tutti gli amici che ho, a partire dai compagni di squadra da bambino e anche da semi-adulto, dai miei allenatori, dalle persone che ho fotografato e con cui ho collaborato. Il palazzo vuoto 5 ore prima della partita, il profumo della palla, il rumore delle scarpe. Tutto è poesia per me. La pallacanestro mi ha dato tantissimo, da qualunque punto di vista.

Che cos’ha uno nato a due passi da Basket City che gli americani non hanno, e viceversa?
La risposta è ovvia, la passione. Noi italiani diamo il giro a tutti proprio per questo: ne ero convinto prima e adesso che vivo qua l’ho toccato con mano. Abbiamo quel qualcosa in più che non si può spiegare, e che gli americani ci invidiano da morire. Sappiamo risolvere i problemi, siamo pratici e siamo campioni nell’arte dell’arrangiarsi. Loro hanno il metodo, hanno i budget grossi, hanno la costanza e il pelo sullo stomaco. Mica roba da poco eh. Spiega a chi non segue molto il basket, perché la NBA è un modello di organizzazione che cercano di copiare tutti gli sport compreso il calcio.
Perchè sanno fare sistema, si sono dati delle regole ferree che devono rispettare tutti. Si sono affidati a una persona tanti anni fa (David Stern), che ha rivoltato questo sistema come un calzino e ha fatto in modo che tutti lo seguissero: quella persona è riuscita a stabilirsi come super partes e ha guidato il movimento. E tutti hanno remato nella stessa direzione.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Da noi una cosa del genere, per cultura e tradizioni diverse, è completamente impossibile.
Dove vivi e di cosa ti occupi oggi?
Vivo a Brooklyn, New York, e faccio il fotografo freelance. Lavoro per i New York Knicks, la NBA, l’NBPA (il sindacato dei giocatori) e mille altre collaborazioni che mi servono per riuscire a pagare l’affitto (che è bello salato).

Cosa significa inseguire il proprio sogno e perché negli USA ci sono più possibilità che in Italia?
Bisogna darsi un obiettivo, cercare di capire qual è la propria strada. Io ho sempre desiderato lavorare con la NBA, ed eccomi qua. Se aspetti sul divano di casa che qualcuno ti chiami, stai fresco. Mi sono messo in gioco, ho mollato quello che avevo e sono partito con quattromila dollari in tasca e tanta voglia di fare. Sono ancora indietro coi lavori, ma qualche passo avanti lo sto facendo. In America ci sono più possibilità perchè tutto si muove in fretta, e uno spiraglio si può aprire; qua puoi veramente fare fortuna, se si apre la strada giusta. Il rovescio della medaglia è che il rischio di fare il tonfo è altrettanto grande, perchè con la stessa velocità con cui vai su…puoi tornare giù. Noi italiani però siamo fortunati in questo: se va male abbiamo sempre la nostra meravigliosa terra in cui tornare. E che mi manca da morire.